Nel mondo degli affari, si dice che le opportunità migliori siano quelle che nessuno ha ancora colto. E quale opportunità più grande di un’area del fondale oceanico grande quanto metà dell’Australia, ricoperta da 21 miliardi di tonnellate di noduli ricchi di metalli preziosi? Il problema è che questi “tesori” si trovano a 5000 metri di profondità, in un ambiente così ostile che conosciamo meglio la superficie della Luna. Eppure l’attività di estrazione nei fondali marini viene presentata come una necessità per sostenere la transizione energetica globale. Ma cosa succede dopo che abbiamo raschiato via questi noduli?
Un team guidato dal professor Daniel Jones del Centro Nazionale di Oceanografia si è posto esattamente questa domanda, tornando sul luogo di un esperimento di estrazione condotto nel 1979. Le scoperte del team, pubblicate su Nature, sono sorprendenti: a distanza di 44 anni, le tracce lasciate dalla macchina mineraria sono ancora perfettamente visibili, come fossili di un’era industriale impressi nel fango abissale.
L’eredità di un esperimenti di estrazione nei fondali
La zona in questione è la Clarion Clipperton Zone (CCZ), una vasta pianura abissale nel Pacifico tra Hawaii e Messico. A 5000 metri sotto la superficie, dove la pressione è 500 volte quella atmosferica, questa distesa di fango ospita miliardi di tonnellate di noduli polimetallici delle dimensioni di una patata, ricchi di cobalto, rame, manganese e nichel.
Nel 1979, un macchinario sperimentale lungo 14 metri avviò una piccola azione di estrazione nei fondali e rastrellò quest’area per quattro giorni, raccogliendo noduli e trasferendoli tramite un nastro trasportatore a un frantoio. A oltre quattro decenni di distanza, il professor Jones e il suo team sono tornati a esaminare i risultati di questo esperimento.
Quarantaquattro anni dopo, le tracce minerarie stesse appaiono molto simili a quando furono create per la prima volta, con una striscia di fondale marino larga 8 metri ripulita dai noduli e due grandi solchi nel fondale marino dove è passata la macchina.
Colpisce particolarmente l’inalterabilità di queste cicatrici. In un ambiente dove il tempo scorre a un ritmo completamente diverso dal nostro, quasi mezzo secolo non è bastato a cancellare le tracce umane.
Un ecosistema fragile e interconnesso
La professoressa associata Adriana Dutkiewicz dell’Università di Sydney, non coinvolta nella ricerca, sottolinea l’eccezionalità di questi ecosistemi abissali. I noduli polimetallici non sono semplici pietre; sono risorse finite che crescono per accrezione attorno a un nucleo a un ritmo incredibilmente lento: circa 0,001 millimetri ogni 1000 anni.
Questo significa che molti dei noduli presenti sui fondali hanno tra i 12 e i 15 milioni di anni. Sorrido pensando che mentre noi umani consideriamo “antico” qualcosa di qualche migliaio di anni, stiamo contemplando di raccogliere in massa oggetti che hanno iniziato a formarsi quando i nostri antenati erano appena scesi dagli alberi.
Ma c’è di più: questi noduli non sono semplici risorse minerarie per attività di estrazione nei fondil; sono l’habitat di comunità biologiche altamente specializzate. Dutkiewicz spiega:
Gli ecosistemi del fondale marino e i noduli sono inestricabilmente connessi.
Tra gli abitanti di questi ambienti estremi troviamo organismi unicellulari giganti con gusci calcarei (chiamati ‘foraminiferi’), cetrioli di mare, pesci e molte altre specie che possono stabilirsi solo sulle superfici dure dei noduli. Che facciamo? Piazza pulita di tutto?

Estrazione dei fondali, il lento recupero degli abissi
Il dottor Mark Hartl, membro del consorzio di ricerca SMARTEX (Seabed Mining and Resilience to Experimental Impact), solleva interrogativi fondamentali sugli effetti dell’estrazione nei fondali.
Ci sono così tante domande senza risposta. Per esempio, sappiamo che i noduli producono ossigeno. Se vengono rimossi, questo ridurrà la quantità di ossigeno nel mare profondo e influenzerà gli organismi che vi abitano?
I ricercatori hanno osservato alcuni dei primi segni di recupero biologico nell’area studiata, ma è importante contestualizzare questi risultati. L’area esplorata è minuscola (0,4 chilometri quadrati) rispetto alle dimensioni di un’operazione commerciale (circa 400 chilometri quadrati). Dutkiewicz avverte che la velocità di recupero riportata dagli autori sarà molto, molto più lenta dopo un’operazione commerciale su larga scala. E senza i noduli, sarà un ecosistema completamente diverso.
E usa un’analogia parecchio efficace per spiegare il concetto:
È un po’ come avere un giardino. Puoi diserbare un’area grande, e le erbacce torneranno molto più lentamente, piuttosto che diserbare solo una piccola area, dove le erbacce crescono quasi il giorno dopo.
Il coautore dello studio, il dottor Adrian Glover del Museo di Storia Naturale del Regno Unito, sottolinea che i loro risultati non forniscono una risposta definitiva sull’accettabilità sociale dell’estrazione nei fondali marini, ma offrono i dati necessari per prendere decisioni politiche più informate.
In un mondo sempre più affamato di metalli per alimentare la transizione verde, dobbiamo chiederci: siamo disposti a sacrificare ecosistemi vecchi milioni di anni per soddisfare la nostra fame di risorse? E se lo facciamo, quali cicatrici lasceremo sul fondale oceanico per le generazioni future? Perché, come dimostra questo studio, nell’abisso le ferite rimangono aperte per molto, troppo tempo.
L’articolo Estrazione dei fondali, danni enormi all’ambiente marino è tratto da Futuro Prossimo.
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