Internet è morto, viva internet. Ecco come farlo risorgere Futuro Prossimo

Internet è morto, viva internet. Ecco come farlo risorgere Futuro Prossimo

Mentre scrivo questo articolo, seduto davanti al mio computer nel 2024, non posso fare a meno di pensare a come Internet sia diventato irriconoscibile rispetto alle sue promesse iniziali. Non è più quello spazio di libertà e innovazione che avevamo sognato. Dai tempi ruggenti dei primi siti alla censura preventiva e automatica dei temi politici e sociali, ho assistito alla lenta morte di un gigante soffocato da monopoli, algoritmi manipolativi e una crescente centralizzazione del potere digitale.

Se c’è ancora una speranza di riportare in vita questo straordinario strumento che ha cambiato la nostra società, vale la pena di esplorarla. Anzi, ci proviamo insieme? Vi va?

L’età dell’oro perduta di internet: cosa abbiamo sbagliato?

Gli anni ’90 e i primi 2000 hanno rappresentato un’epoca di vera sperimentazione digitale. I blog personali prosperavano (anche il mio faceva faville, era molto più intimista e si chiamava “Lontanodagliocchi” – qui una foto sfocata di 20 anni fa catturata dalla wayback machine), le comunità online si formavano organicamente attorno a interessi comuni, e la creatività fioriva in ogni angolo del web. Le startup nascevano con visioni rivoluzionarie: sulle ceneri di Napster veniva fuori Spotify, e prometteva di democratizzare la musica, Netflix di liberare l’intrattenimento dalle catene della TV tradizionale, Facebook di connettere il mondo intero.

La libertà di espressione (almeno quella percepita) era reale, non mediata da algoritmi o politiche aziendali restrittive. Le persone creavano contenuti per passione, non per compiacere un sistema di monetizzazione. Le pubblicità erano fastidiosi banner, non sofisticati sistemi di manipolazione comportamentale. Era un’epoca in cui la serendipità delle scoperte online era ancora possibile. È vero o no? E poi cosa è successo?

Il trionfo degli algoritmi sulla verità

La disinformazione non è più un effetto collaterale: è diventata un modello di business. Durante la pandemia di COVID-19, abbiamo assistito a una vera e propria infodemia. Le teorie del complotto si sono diffuse più velocemente del virus stesso.

Le elezioni americane del 2020 hanno mostrato quanto sia facile manipolare l’opinione pubblica attraverso narrative false ma emotivamente coinvolgenti, e quelle del 2024 hanno fatto lo stesso percorso a ritroso, mostrando al pubblico un inesistente “testa a testa” tra due candidati che erano a distanze importanti.

Gli algoritmi dei social media hanno creato quello che gli esperti chiamano “filter bubble”: un sistema di bolle informative personalizzate che riflettono e amplificano solo le nostre convinzioni preesistenti. È come se avessimo costruito delle prigioni digitali su misura, dove ogni utente vede solo ciò che conferma i suoi pregiudizi. Questo ha portato a una polarizzazione sociale senza precedenti, dove il dialogo tra diverse visioni del mondo è diventato praticamente impossibile. Perchè? “Divide et impera”, verrebbe da dire. E non ci allontaniamo dal vero: anzi.

La disinformazione non è più un effetto collaterale: è diventata un modello di business.

Internet e la centralizzazione del potere digitale

Non voglio girarci intorno: il web è diventato un oligopolio. Solo 5 grandi aziende – Google, Amazon, Meta, Apple e Microsoft – controllano praticamente ogni aspetto della nostra vita digitale. Hanno il potere di decidere quali voci vengono amplificate e quali silenziate, quali business possono prosperare e quali sono destinati al fallimento.

Questo controllo si estende ben oltre il mondo digitale. Queste aziende influenzano le elezioni, modellano l’opinione pubblica, determinano quali innovazioni vedranno la luce e quali verranno soffocate sul nascere. Il loro potere supera quello di molti stati nazionali, ma senza alcun contrappeso democratico.

L’economia dell’attenzione: il vero costo della gratuità

Il vecchio detto “Se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu” non è mai stato così vero. Il modello economico dominante di Internet si basa sulla raccolta ossessiva di dati personali e, lo ribadisco, sulla manipolazione comportamentale. I social media sono progettati come slot machine digitali, sfruttando le nostre vulnerabilità psicologiche per massimizzare il “tempo di permanenza” sulle piattaforme.

Le conseguenze sulla salute mentale sono devastanti. L’ansia, la depressione e i disturbi dell’attenzione sono in aumento, specialmente tra i giovani. La dipendenza da smartphone e social media sta alterando profondamente il nostro modo di pensare e relazionarci con gli altri.

La crisi dei contenuti di qualità

Il giornalismo investigativo sta morendo, sostituito da clickbait spesso travestito da debunking e contenuti virali privi di sostanza. I creatori di contenuti sono intrappolati in una corsa al ribasso, costretti a inseguire gli algoritmi invece di concentrarsi sulla qualità. Le redazioni chiudono, sostituite da fabbriche di contenuti automatizzati e influencer che promuovono qualsiasi cosa per denaro.

Le piattaforme di streaming, un tempo sinonimo di innovazione, stanno producendo contenuti sempre più omologati. La diversità culturale viene sacrificata sull’altare dell’engagement globale. La creatività autentica fatica a emergere in un sistema che privilegia il sicuro successo delle formule collaudate, magari “serializzato” con l’intelligenza artificiale. Tutto finito, allora? Aspettate.

Segnali di speranza: le alternative emergenti

Nonostante questo scenario cupo, stanno emergendo alternative interessanti. Il movimento del “Web3” promette di decentralizzare Internet attraverso la blockchain. Le piattaforme federate come Mastodon (a proposito: ci siamo anche noi, seguiteci!) offrono un’alternativa ai social media centralizzati. Progetti open source continuano a sviluppare tecnologie che rispettano la privacy e promuovono la libertà digitale.

Nuovi modelli di finanziamento, come il crowdfunding e le sottoscrizioni dirette, permettono ai creatori di contenuti di essere sostenuti direttamente dal loro pubblico, bypassando gli intermediari tradizionali. Ma serve di più per quella che oggi appare comunque una rinascita clamorosa.

Un piano d’azione per il futuro

Per salvare Internet, dovremmo (dobbiamo!) agire su più fronti:

  • Regolamentazione efficace: Serve un framework normativo globale che limiti il potere delle Big Tech e argini il pericolo di un neo feudalesimo digitale;
  • Alfabetizzazione digitale: Educare le persone a riconoscere la manipolazione degli algoritmi (al momento la massa è inerme, e si vede);
  • Decentralizzazione: Supportare alternative alle piattaforme dominanti (yu-hu Bluesky, batti un colpo anche tu?);
  • Privacy by design: Promuovere tecnologie rispettose della privacy, ché oggi non ci siamo proprio;
  • Economia sostenibile: Sviluppare modelli di business etici.

Internet, la difficile strada verso la resurrezione

La salvezza (ma che dico: la rinascita) di Internet richiede un impegno collettivo. Non possiamo permettere che il sogno di un web libero muoia sotto il peso degli interessi commerciali. È tempo di ripensare radicalmente come costruiamo e utilizziamo le tecnologie digitali.

Serve un nuovo patto sociale per l’era digitale, basato su principi di trasparenza, privacy, decentralizzazione e rispetto per i diritti umani. Solo così potremo trasformare Internet da strumento di controllo a vera infrastruttura per il progresso umano.

La sfida è immensa, ma la posta in gioco è troppo alta per arrendersi. Internet non è solo tecnologia: è il sistema nervoso della nostra civiltà. Salvarlo significa salvare il futuro della comunicazione umana, della democrazia e della libertà di espressione. Il tempo per agire è ora.

L’articolo Internet è morto, viva internet. Ecco come farlo risorgere è tratto da Futuro Prossimo.

Tecnologia, Internet 

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