Ogni passo avanti nella comprensione della mortalità umana porta con sé nuove domande. Nell’ultimo quarto di secolo, un acceso dibattito ha diviso la comunità scientifica tra chi vede l’immortalità all’orizzonte e chi invece identifica precisi limiti biologici alla durata della vita. Chi ha ragione? E come potrebbe proseguire la ricerca in questo campo?
Le verità sulla mortalità umana
L’aumento dell’aspettativa di vita è stato uno dei più grandi successi recenti dell’umanità. Gli avanzamenti nella salute pubblica iniziati nel XIX secolo hanno dato il via a questo straordinario processo, mentre i recenti progressi sono stati ottenuti riducendo i tassi di mortalità nelle età adulte e anziane.
Tuttavia, negli ultimi 30 anni la realtà sta mostrando dei possibili limiti. Come sottolineano S. Jay Olshansky e Bruce A. Carnes in questo interessante studio, ricercatori del The Journals of Gerontology, esistono barriere biologiche che non possono essere ignorate, per quanto la matematica possa suggerire il contrario.
La mortalità umana segue dei pattern regolari e prevedibili, tanto che nel 1825 Benjamin Gompertz coniò il termine “legge della mortalità” per descriverla. E questa legge, a loro dire, ha dei confini precisi.
I limiti matematici della mortalità umana
Una corrente di pensiero, basata puramente sulla matematica, suggerisce che i tassi di mortalità potrebbero continuare a diminuire indefinitamente, arrivando teoricamente a zero: cioè all’immortalità. Questa visione si basa sul presupposto che la tecnologia medica possa sempre “fabbricare” più tempo di vita. Tra i suoi esponenti c’è Aubrey De Grey, un ricercatore nel campo del longevismo, che ha scritto molto negli ultimi anni.
Questa linea di ragionamento ricorda il paradosso di Zenone, formulato nel 450 a.C., secondo cui una freccia non raggiungerebbe mai il suo bersaglio perché la distanza può essere matematicamente dimezzata all’infinito. Nella realtà fisica, però, la freccia colpisce sempre il bersaglio.
Lo stesso vale per la mortalità umana: i modelli matematici che predicono l’immortalità, dicono Olshansky e Carnes, non tengono conto dei limiti imposti dalla biologia del corpo umano.
L’evidenza dei record sportivi
Un esempio illuminante viene dal mondo dello sport. Il record mondiale dei 1500 metri è migliorato linearmente dal 1912, quando Abel Kiviat lo corse in 3 minuti e 55 secondi, fino al record attuale di Hicham El Guerrouj di 3 minuti e 26 secondi ottenuto nel 1998.
Seguendo lo stesso tipo di proiezione matematica usata per la longevità, in alcuni secoli i 1500 metri verranno forse percorsi istantaneamente? Un’ovvia assurdità che mostra i limiti di questo approccio puramente matematico.
Le barriere biologiche
Proprio come non esistono vincoli biologici specifici sulla velocità di corsa, ma il design del corpo umano impone comunque dei limiti indiretti, lo stesso vale per la longevità e dunque per la mortalità umana. Gli esseri umani non possono correre alla velocità di un ghepardo o vivere quanto uno squalo della Groenlandia (392 ± 120 anni) perché il nostro design corporeo si è evoluto con altre priorità.
La longevità umana è un sottoprodotto indiretto di programmi genetici fissi che ottimizzano crescita, sviluppo e riproduzione. L’invecchiamento è la conseguenza non intenzionale del danneggiamento accumulato dagli stessi meccanismi biologici che ci mantengono in vita. Come si bilancia questa dinamica?
Il fenomeno dell’entropia
Più di un quarto di secolo fa, Olshansky e colleghi hanno dimostrato un fenomeno chiamato “entropia nella tavola di mortalità”: più l’aspettativa di vita si alza, più diventa difficile aumentarla ulteriormente.
Quando l’aspettativa di vita alla nascita si avvicina agli 80 anni, la grande maggioranza dei decessi si concentra tra i 60 e i 95 anni. I tassi di mortalità in questa fascia d’età sono molto alti, con un tempo di raddoppio di circa 7-8 anni, principalmente perché l’invecchiamento diventa il fattore di rischio dominante per le malattie. Forse, allora, bisogna “semplicemente” puntare ad una strategia diversa da quella di cercare un “elisir di lunga vita”.
Longevità e mortalità umana: verso un nuovo paradigma?
La soluzione, ovviamente, non è abbandonare gli sforzi per salvare vite nelle età avanzate, ma riconoscere che l’aspettativa di vita diventa meno sensibile ai cali di mortalità oltre gli 80 anni. Per questo le cure per le principali malattie mortali non produrranno più grandi aumenti dell’aspettativa di vita.
Le direzioni importanti per il futuro diventano allora due. Una è potenziare i sistemi per riparare e/o sostituire le “parti” di noi che non funzionano. Genetica, trapianti e altri rimedi. L’altra, invece, non è tanto prolungare la vita a tutti i costi quanto estendere il periodo di vita in buona salute. Come evidenziato dalla Gerontological Society of America, il focus della ricerca dovrebbe spostarsi verso quella che viene chiamata “compressione della morbilità” (cioè ridurre il più possibile il periodo di vita trascorso in cattiva salute).
Il futuro della ricerca
A prescindere dagli studi già effettuati e dalle attuali stime dei ricercatori, credo che nessuno possa prevedere con esattezza come i progressi nella biologia dell’invecchiamento influenzeranno l’aspettativa di vita futura. Ciò che sappiamo per certo, però, è che concentrarsi sull’estensione del periodo di vita in salute, più che sul prolungamento della vita in sé, rappresenta un obiettivo più realistico e prezioso.
Le questioni sui limiti superiori dell’aspettativa di vita dovrebbero essere lasciate agli elementi esoterici della demografia matematica, o forse alla fantascienza. La vera sfida per la scienza moderna è migliorare la qualità della vita negli anni che abbiamo, non per forza inseguire l’immortalità, anche se io ribalterei la questione: siamo sicuri che è davvero un miraggio?
L’articolo Longevità: le verità scomode sulla mortalità umana è tratto da Futuro Prossimo.
Medicina, longevità