C’era una volta l’uomo senza tecnologia. Nudo e inerme nella savana primordiale, armato solo del suo ingegno per sopravvivere alle insidie della natura. Poi, un giorno, qualcuno scheggiò una pietra e creò il primo utensile. E nulla fu più come prima. Inizia così la storia del connubio tra la nostra specie e le sue invenzioni: una storia vecchia come il genere Homo, che ha trasformato un primate qualunque negli iperconnessi cyborg di oggi. Una storia di co-evoluzione, come la chiama il filosofo Tom Chatfield, in cui biologico e artificiale si intrecciano fino quasi a fondersi. Per capire chi siamo davvero, sostiene Chatfield nel suo ultimo saggio, dobbiamo riscoprire questo legame antico con la tecnologia. E reimparare a viverlo con consapevolezza nell’era digitale.
Nati per inventare
La tecnologia non è un optional per la nostra specie. È una caratteristica distintiva, un tratto adattivo fondamentale che ci accompagna da sempre. Molto prima che l’Homo sapiens facesse la sua comparsa sulla Terra, i nostri antenati ominidi avevano già sviluppato una cultura tecnologica sofisticata, basata su strumenti in pietra e sull’uso del fuoco.
E non si tratta di semplici accessori, ma veri e propri game-changer evolutivi. Grazie alle tecnologie dell’epoca i nostri progenitori poterono accedere a nuove fonti di cibo, espandersi in nuovi ambienti e, soprattutto, sviluppare una trasmissione intergenerazionale di conoscenze non più legata solo ai geni, ma anche all’apprendimento culturale.
In altre parole, la tecnologia divenne parte integrante della nostra strategia di sopravvivenza. Non più un optional, ma un elemento irrinunciabile del nostro adattamento all’ambiente. Una seconda natura, verrebbe da dire, che si affiancò a quella puramente biologica plasmando il nostro destino di specie. E c’è ancora gente che dice “senza tecnologia si viveva meglio”. Quando? Non c’è praticamente MAI STATO un tempo senza tecnologie.
Tecnologia di 400.000 anni fa.
Tecnologia, la mente estesa
Ma l’impatto della tecnologia non si limita al nostro stile di vita o al nostro habitat. Filosofi come Andy Clark e David Chalmers lo sostengono da tempo: gli strumenti che creiamo hanno anche profondamente modificato la natura stessa della nostra mente, estendendone i confini oltre la scatola cranica.
Pensate a quanto spesso ci affidiamo ai nostri smartphone per ricordare informazioni, orientarci nello spazio o eseguire calcoli complessi. Per molti di noi, questi dispositivi sono diventati talmente integrati con la nostra vita mentale che perderli equivale a smarrire un pezzo di noi stessi.
In un certo senso, argomenta Chatfield, siamo diventati dei sistemi ibridi, accoppiati in modo simbiotico con i nostri strumenti tecnologici. La nostra cognizione non è più confinata nel cervello, ma si estende e si potenzia grazie ai supporti artificiali che abbiamo creato.
Naturalmente, questo solleva una serie di interrogativi etici non banali. Se la nostra mente è distribuita nel mondo tecnologico che ci circonda, allora i valori e le priorità incorporati in quel mondo diventano cruciali. Vogliamo davvero delegare ad algoritmi e sistemi automatici compiti intimi come la cura dei figli o la comunicazione sociale? Fino a che punto possiamo spingere l’outsourcing cognitivo senza perdere qualcosa di essenziale della nostra umanità?
Tecnologia, l’inganno antropomorfico
Una delle sfide principali in questo “negoziato con la tecnologia” è la nostra tendenza ad antropomorfizzarla, cioè a trattare le macchine come se fossero entità senzienti e simili a noi. Questa “illusione antropomorfica”, che abbiamo preso con ironia nel caso dei primi assistenti vocali, è particolarmente insidiosa nel caso dei moderni sistemi di intelligenza artificiale, capaci di simulare conversazioni e ragionamenti umani in modo a tratti inquietante.
Ma per quanto sofisticati, ci ricorda Chatfield, anche i più avanzati modelli di linguaggio e chatbot non sono lontanamente paragonabili a una mente umana. Sono, in fondo, dei motori statistici, che funzionano attraverso un colossale riconoscimento di pattern e generazione di previsioni. Non sono senzienti neanche per sogno, non possiedono una vera comprensione, né una visione coerente del mondo, né tantomeno una vita interiore come la intendiamo noi. E attenzione: nemmeno ne hanno bisogno per “conquistare il mondo”.
Io pe me, tu pe te
Per questo, considerare l’AI come umana è profondamente fuorviante e potenzialmente pericoloso. Può spingerci ad avere più fiducia del dovuto in questi sistemi, ad attribuire loro sentimenti e diritti che al momento non hanno, e a sottovalutare le agende aziendali e i limiti che si celano dietro le loro patinate facce/interfacce.
Ancor più preoccupante è il rischio che, antropomorfizzando la tecnologia, finiamo per considerare noi stessi alla stregua di macchine. In un mondo sempre più ottimizzato per l’efficienza algoritmica, è fin troppo facile interiorizzare una visione iper-meccanicistica di noi stessi, come se fossimo anche noi dei semplici software da aggiornare e hardware da potenziare.
Ma questo riduzionismo tecnologico, avverte Chatfield, è un vicolo cieco. Noi non siamo macchine, né dovremmo aspirare a esserlo. Siamo creature organiche, emotive, relazionali, imprevedibili e intrise di significato. Cercare di “risolvere” la condizione umana come un problema ingegneristico è un errore di categoria.
Verso un futuro più saggio
Dove ci porta allora questa consapevolezza? A riconoscere che la tecnologia non è qualcosa di estraneo alla storia umana, ma il medium stesso in cui quella storia si dipana. Non ha senso chiedersi come sarebbe un mondo senza tecnologia, perché un mondo del genere non esiste da milioni di anni.
Quello che possiamo fare, però, è interrogarci criticamente sul nostro rapporto attuale con la tecnologia e orientarlo consapevolmente verso una direzione più allineata con i nostri valori e il nostro benessere. Questo significa ritagliarci spazi per coltivare legami umani autentici e processi di creazione di senso svincolati dalla mediazione digitale. Significa stabilire confini sani su quali domini intimi della nostra vita vogliamo mantenere liberi dall’automazione e dalla logica algoritmica. E significa riconoscere che il “progresso” tecnologico non è un fine in sé, ma un mezzo per migliorare la qualità della vita delle persone in carne e ossa.
Strumenti. Strumenti ovunque.
Paradossalmente, adottare una prospettiva di lungo periodo sull’evoluzione della tecnologia può aiutarci ad avere un approccio più riflessivo e selettivo sul suo futuro. Collocando le innovazioni odierne nel grande arco della co-evoluzione uomo-tecnologia, ci ricordiamo che ogni strumento, dalla selce allo smartphone, vale solo per l’uso che ne facciamo.
La questione non è se vivremo con la tecnologia, ma COME vivremo con essa. Inconsapevolmente o consapevolmente, passivamente o proattivamente, in modo avventato o saggio. Nel confrontarci con questo interrogativo, stiamo partecipando a una conversazione antica quanto la cultura stessa. Una conversazione che, con un po’ di fortuna, ci aiuterà a costruire un futuro all’altezza della nostra eredità tecnologica e del nostro più profondo potenziale umano.
L’articolo Si viveva meglio prima, senza tecnologia? Prima Quando? è tratto da Futuro Prossimo.
Società, Tecnologia, filosofia.