La plastica, materiale tanto versatile quanto problematico, sembra aver trovato il suo tallone d’Achille. O meglio, gli scienziati gliel’hanno creato su misura. Introducendo nella sua struttura spore di batteri “mangiaplastica”, hanno dato vita a un nuovo tipo di materiale: resistente e durevole durante l’uso, ma capace di autodistruggersi una volta finito in discarica.
Cari miei, questa è un’innovazione che potrebbe rappresentare davvero una bella svolta: e ancora una volta viene da una certa “biomimetica” (il mio pallino).
Una soluzione creativa a un problema pressante
L’inquinamento da plastica, ve ne ho parlato mille volte, è una delle sfide ambientali più urgenti che l’umanità si trova ad affrontare. Questo materiale è entrato in ogni anfratto della nostra vita quotidiana, e ora non riusciamo più a liberarcene, anzi continua ad accumularsi.
In uno studio pubblicato su Nature Communications (ve lo linko qui) un team di ricercatori ha sviluppato un approccio sorprendente per affrontare questo problema: incorporare nella plastica stessa il meccanismo per la sua biodegradazione.
Super spore resistenti al calore
Il primo ostacolo da superare è stato quello di trovare un modo per far sopravvivere le spore batteriche alle alte temperature necessarie per la produzione della plastica. Come spiega il team di ricerca, “il calore elevato utilizzato per produrre la plastica ucciderebbe la maggior parte delle spore batteriche”.
La maggior parte, già. Ma non tutte. I ricercatori hanno modificato geneticamente i batteri bacillus subtilis, rendendoli capaci di resistere a temperature fino a 135 °C. I risultati? Sono stati impressionanti: il 96-100% dei batteri modificati è sopravvissuto alla temperatura di lavorazione della plastica, rispetto al solo 20% dei batteri non modificati.
Una biodegradazione rapida ed efficace
Una volta superato questo scoglio, il team ha testato l’efficacia dei batteri nel decomporre la plastica. Le spore, incorporate nel materiale in concentrazioni fino all’1% del peso della plastica, vengono attivate dall’umidità e dai nutrienti presenti nel terreno una volta che il prodotto finisce in discarica.
Anche in questo caso i risultati parlano chiaro: i batteri hanno decomposto oltre il 90% del materiale entro cinque mesi dal sotterramento nel compost. Un processo di biodegradazione straordinariamente rapido per un materiale che normalmente richiede decenni o secoli per decomporsi.
Più forte e resistente grazie alle spore
La vera sorpresa di questa innovazione è che l’incorporazione delle spore batteriche non indebolisce la plastica, anzi. I test hanno dimostrato che la plastica realizzata con le spore è risultata fino al 37% più resistente e ha mostrato una resistenza alla trazione fino al 30% superiore rispetto al TPU regolare.
I ricercatori ipotizzano che le spore agiscano come un riempitivo di rinforzo, migliorando le proprietà meccaniche del materiale.
Una tecnica scalabile per un futuro più sostenibile
Il team di ricerca sottolinea che questa tecnica, potenzialmente scalabile, potrebbe aprire nuove strade per lo smaltimento dei TPU non riciclabili, rendendoli al contempo più resistenti e durevoli durante l’uso. Come evidenziato nello studio,
combinando questo metodo con altre tecniche, potremmo fare progressi significativi verso la risoluzione del problema dell’inquinamento da plastica.
Ancora una volta la natura stessa, con la sua capacità di adattamento, ci indica la strada da seguire. Sta a noi cogliere questi spunti e tradurli in azioni concrete per costruire un domani migliore.
L’articolo Svolta ambiente, creata plastica che si autodistrugge grazie a spore speciali è tratto da Futuro Prossimo.
Ambiente, Materiali, plastica